“Apollo e Dafne” Bernini al Museo Borghese!
L’Apollo e Dafne fu l’ultima di quella serie di commissioni rivolte dal cardinale Scipione Caffarelli-Borghese allo scultore Gian Lorenzo Bernini, all’epoca poco più che ventenne. L’esecuzione del gruppo scultoreo fu iniziata nell’agosto del 1622, ma fu interrotta nell’estate del 1623, siccome Bernini doveva portare a compimento il David per il cardinale Alessandro Peretti.
Terminato il David nel 1624, Bernini poté riprendere il lavoro nell’aprile dello stesso anno, avvalendosi della collaborazione di uno dei componenti della sua bottega, lo scultore carrarese Giuliano Finelli, che intervenne nelle parti più delicate dell’opera, eseguendo il fogliame e le radici.
L’Apollo e Dafne venne portato finalmente a compimento nell’autunno 1625, riscuotendo sin da subito un’accoglienza entusiastica che consacrò l’opera una dei capolavori di Bernini.
Così come già avvenne per il Ratto di Proserpina, scultura berniniana del 1622, alla base dell’Apollo e Dafne venne apposto un cartiglio ove è riportato un distico moraleggiante di Maffeo Barberini: attribuendo un significato morale cristiano a un soggetto pagano (come quello, per l’appunto, di Apollo e Dafne) si poteva ben giustificare la presenza del gruppo scultoreo a villa Borghese. Riportiamo il distico di seguito:
(LA)« Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae fronde manus implet baccas seu carpit amaras » |
(IT)« Chi amando insegue le gioie della bellezza fugace riempie la mano di fronde e coglie bacche amare » |
Apollo e Dafne, la storia di un amore infelice
Dafne, figlia di Gea e del fiume Peneo, era una giovane e deliziosa ninfa che viveva serena passando il suo tempo a deliziarsi della quiete dei boschi e del piacere della caccia quando la sua vita fu stravolta dal capriccio di due divinità: Apollo ed Eros. Racconta la leggenda che Apollo, fiero di avere ucciso il mostruoso serpente Pitone, incontrato Eros mentre era intendo a forgiare un nuovo arco, si burlò di lui e del fatto che non avesse mai compiuto delle azioni degne di gloria.
Il dio dell’amore, profondamente ferito dalle parole di Apollo, volò in cima al monte Parnaso e lì preparò la sua vendetta: prese due frecce, una ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò con violenza nel cuore di Apollo ed un’altra, spuntata e di piombo, destinata a respingere l’amore, che lanciò nel cuore di Dafne. Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, fino a quando non riuscì a trovarla. Alla sua vista Dafne, scappò impaurita e a nulla valsero le suppliche del dio che gridava il suo amore e le sue origini divine per cercare di impressionare la giovane fanciulla. Dafne, terrorizzata, scappò tra i boschi ma accortasi che la sua corsa era vana, in quanto Apollo la stava per raggiungere, invocò il Padre Peneo, pregandolo di mutare il suo aspetto perché tanto dolore e paura le stava procurando.
Il Padre Peneo, ascoltò la sua preghiera e così iniziò a rallentare la corsa della figlia fino a fermarla e contemporaneamente a trasformare il suo corpo: i suoi capelli si mutarono in fronde leggere; le sue braccia si levarono alte verso il cielo diventando flessibili rami; il suo corpo aggraziato si ricoprì di corteccia; i suoi delicati piedi si tramutarono in robuste radici ed il suo volto, rigato di lacrime, svaniva nella cima dell’albero. Dafne si era trasformata in un leggiadro e forte albero che prese il nome di LAURO (dal greco dafne = lauro).
La trasformazione era avvenuta sotto gli occhi di Apollo che disperato, abbracciava il tronco nella speranza di riuscire a ritrovare la dolce Dafne. Alla fine il dio, considerati inutili i suoi tentativi, proclamò a gran voce che la pianta dell’alloro sarebbe stata sacra al suo culto e segno di gloria da porsi sul capo dei vincitori.
Così ancor oggi, in ricordo di Dafne, si è solito proclamare i migliori fra gli uomini, quelli capaci d’imprese esaltanti, con il capo cinto da una corona d’alloro.
Descrizione
La scena è spettacolare e terribile al tempo stesso. Apollo è colto nell’istante in cui sta terminando la sua corsa, resa con un dinamismo sino ad allora sconosciuto alla tradizione scultorea; nel marmo, infatti, il dio è appena riuscito a raggiungere Dafne, e la sfiora leggermente con la mano sinistra, forse con l’intento di abbracciarla. Apollo, il cui corpo è trattato mettendo anatomicamente in evidenza i muscoli e i tendini tesi per lo sforzo, incede poggiando tutto il peso sul piede destro, saldamente ancorato al suolo, mentre la gamba sinistra è sollevata in alto. Il mantello gli sta scivolando via ed è gonfiato dal vento alle sue spalle; i capelli, organizzati in chiome ondulate e come annodate, sono mossi all’indietro per via dell’impeto della corsa e il suo sguardo presenta una vitalità erompente, suggerita dallo spessore delle palpebre, dall’iride incavato e dalla pupilla in rilievo (che, in questo modo, è l’unica ad essere colpita dalla luce).
I volti di Apollo e Dafne visti lateralmente

Dafne, per sottrarsi all’indesiderato abbraccio, ostenta la sua nudità contro il suo volere, e lotta per la sua verginità: per sfuggire alla presa di Apollo, infatti, la ninfa frena all’improvviso e inarca il busto verso avanti, così da controbilanciare la spinta del dio e proseguire la fuga. La parte inferiore del busto di Dafne, tuttavia, non risponde più alla sua volontà. La metamorfosi, infatti, è appena iniziata: il piede sinistro ha già perso ogni aspetto umano, divenendo radice, e altrettanto sta avvenendo al destro, che la sventurata ninfa tenta invano di sollevare ma che è invece ancorato al suolo da alcune appendici cilindriche che crescono dalle unghie e che formeranno in seguito l’apparato radicale della pianta di alloro. Per il medesimo processo, la corteccia sta progressivamente avvolgendo il suo leggiadro corpo, mentre le sue mani, rivolte al cielo con le palme aperte, stanno già diventando ramoscelli d’alloro. Il volto di Dafne, caratterizzato dalla bocca semiaperta, rivela emozioni contrastanti: terrore, per esser stata appena raggiunta da Apollo, ma anche sollievo, perché è consapevole della metamorfosi appena iniziata e che, pertanto, il padre Peneo è riuscito a esaudire il suo desiderio. Lo sguardo di Apollo, invece, manifesta una dolente, stupefatta delusione.
Il pathos della scena è enfatizzato non solo dal dinamismo sia fisico che psicologico di Apollo e Dafne, ma anche dall’alternanza di pieni e vuoti. dai giochi di luce e di ombra, e dall’attenzione alla resa delle superfici diversamente trattate, così da poter imitare nella stessa materia marmorea la scabrosità della corteccia, la consistenza rocciosa del terreno, la morbidezza del volto di Dafne e l’aspra freschezza del fogliame.
Notevole anche il perfetto equilibrio delle parti dell’opera, che si estendono nello spazio senza compromettere l’equilibrio, secondo un gioco di avvicinamenti e distacchi.
Blogromaislove
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