Cosa è rimasto di questi anni Ottanta a parte le penne vodka e salmone?
Se lo domandava Raf al futuro, e me lo domando pure io, col senno di poi, consapevole che – lato moda, cinema, serie tv e musica – gli anni Ottanta e Novanta sono tornati in grande spolvero… Che poi, perché mai? Per snobismo? Eppure ai tempi pochi si lamentavano della pasta con gli alcolici, come le penne con vodka e salmone o il risotto fragole e champagne🥂
Erano i piatti-simbolo dello yuppismo, accompagnati da appetitoso aspic di pollo, invitanti tartine al caviale o colorati cocktail di gamberi dove la percentuale di salsa rosa superava di gran lunga la percentuale di gamberi. Salse, salsine e gelatine potevano essere considerate una specie di cavallo di battaglia sempre vincente o quantomeno piazzato, al punto che immaginare una cena che non le prevedesse risultava quasi impossibile.
L’apice, però, non veniva toccato con gli eleganti bicchieri di vetro in cui affogavano incolpevoli pochi gamberetti in un mare di salsa rosa, bensì nel famigerato filetto al pepe verde… L’interrogativo che ci ha attanagliati per anni era sì semplice, ma in un certo senso di matrice esistenziale: la carne c’era veramente? O forse la bocca era talmente anestetizzata e piena di salsa che il filetto avrebbe potuto tranquillamente essere seitan? E soprattutto, di cosa sapeva veramente la salsa al pepe verde? E come mai ricordava tutto, tranne il gusto del pepe verde?
Dubbi amletici insomma, destinati a rimanere irrisolti… Qualcun altro, però, è riuscito a sopravvivere, e contro qualsiasi previsione come il mare e monti che dir si voglia – conta ancora parecchi affezionati che impazziscono davanti a un bel piattone con astice o aragosta e filet mignon.
E sebbene sia meno blasonata rispetto a inizio/metà Duemila, non è caduta nel più profondo dimenticatoio, l’intramontabile insalata di riso (che se fatta bene un senso ce l’ha, ma se fatta male… beh, è il male) e per la triste bresaola con rucola e grana, ospitale rifugio per coloro che come me sono sempre a dieta da almeno trent’anni.
Doveroso citare pure la paella, che fece il suo ingresso nei menu nostrani intorno agli anni ’90 come uno dei primi ‘cibi stranieri’ oltre al già conosciuto cinese: va prenotata con un giorno d’anticipo un po’ ovunque ma resiste, l’originale valenciana vuole carne e frutti di mare insieme (e qui torna il surf and turf), la variante con soli frutti di mare è, appunto, una variante diffusasi sulle coste mediterranee e all’estero.
Ma non è il momento di sottilizzare: accanto a simili evergreen, che – almeno nei locali veraci e senza puzza sotto il naso – si difendono stoicamente, bisogna osservare un minuto di raccoglimento per il profiterole e per lo yogurt gelato.
Il primo è stato un’istituzione, un monumento, un pilastro dei dessert anni Ottanta e Novanta, il secondo, in abbinamento a granella di nocciole, riccioli di cioccolato, cereali e Smarties diede filo da torcere al gelato vero negli anni Novanta: le yogurterie spuntavano come funghi, e ci fu un periodo durante il quale la gente pensava sul serio che lo yogurt gelato fosse più sano di una normale coppetta acquistata in gelateria.
Il ragionamento alla base era pure plausibile, ma poi s’inciampava sui topping: ci s’inciampa tuttora, nelle poche yogurterie sopravvissute, da cui puntualmente esce gente che tiene in precario equilibrio complesse opere architettoniche composte da yogurt gelato e guarnizioni varie.
Un vecchio adagio d’altronde recita che la panna è stata per gli anni Ottanta quello che lo yogurt è stato per gli anni Novanta, riassumendo la dicotomia tra i due decenni: opulenza versus sobrietà, con l’aggiunta di topping su quest’ultima affinché risultasse meno acida e indigesta.